Cari amici,
questa mattina nella meravigliosa cornice istituzionale di Sala Zuccari a Palazzo Giustiani presso il Senato della Repubblica è stato presentato DIGITALmeet 2022 che compie quest’anno 10 anni.
Hanno partecipato all’incontro Gianni POTTI, presidente della Fondazione Comunica e founder di Digitalmeet, Niccolò STAMBOGLIS, Data scientist di Infocamere; il prof. Paolo GUBITTA, direttore scientifico Osservatorio Professioni digitali dell’Università di Padova; Maurizio BERETTA, responsabile della comunicazione Unicredit; Gianni DAL POZZO, AD Considi e Maurizio GUAGNETTI, responsabile della comunicazione della start up MeglioQuesto.
Oggi siamo sempre più connessi.
Il digitale ci mette di fronte a nuove sfide come il metaverso dove gli oggetti digitali avranno un valore proprio aprendo la strada a vere e proprie economie digitali.
Il mondo sta cambiando, velocemente, a ritmi impressionanti.
Cinque anni fa, nel mondo, c’erano 20 miliardi di dispositivi collegati in Rete
Questo numero è raddoppiato negli ultimi 5 anni: oggi se ne contano 42 miliardi. Fra 3 anni, nel 2025, saranno 75 miliardi.
Attenzione, però, non possiamo pensare di digitalizzare il mondo mettendo più telefoni cellulare e smartphone nelle tasche delle persone.
No, la transizione digitale avviene prima di tutto con una cultura digitale.
Non a caso, le risorse del PNRR sono una straordinaria opportunità per rafforzare le competenze digitali.
Il tema delle competenze ci sta molto a cuore. Ecco perché oggi presentiamo il festival del DIGITALmeet 2022.
Quest’anno il DIGITAmeet seguirà tre filoni tematici: la salute e il digitale con le novità della telemedicina e della neuroriabilitazione ad esempio; digitale ed energia con il contributo delle nuove tecnologie per promuovere la sostenibilità in chiave 4.0 con un contenimento dei costi dell’energia; digitale e quotidianità in cui si racconterà come l’innovazione ha cambiato, sta cambiando e soprattutto cambierà le nostre vite concretamente ad esempio con la domotica a casa o le auto intelligenti.
L’innovazione d’altronde è sempre più pervasiva e diffusa.
Non è solo una questione per gli addetti ai lavori.
L’innovazione funziona quando questa si diffonde e cambia a 360 gradi la nostra quotidianità.
L’emergenza pandemica ce lo ha insegnato: basti pensare a cosa sarebbe avvenuto se avessimo vissuto il lockdown a casa senza Internet, quindi senza la possibilità di beneficiare di strumenti come l’e-commerce o ancora l’home banking o lo smart working.
Tuttavia, resta ancora molta strada da fare.
Basti pensare al fatto che solo il 46% della popolazione adulta in Italia è “alfabetizzato digitalmente”.
Il nostro Paese è terzultimo nell’indice DESI sulle competenze digitali.
La ricerca che presenteremo oggi – tra qualche istante con il prof. Gubitta – ci racconterà come le imprese digitali sono mutate nell’arco degli ultimi 10 anni. Sembra un periodo breve ma non è così quando parliamo di nuove tecnologie e digitale.
Dal 2012 al 2021 di strada ne è stata fatta.
Partiremo dal 2012 perché proprio il 2012 è stato un anno chiave che ha cambiato radicalmente il quadro legislativo. È stato approvato il Decreto Crescita che ha introdotto una serie di misure normative ad hoc per le piccole medie imprese innovative che operano nel campo dell’innovazione tecnologica.
C’è un problema di formazione ma non solo, come vedremo tra poco.
A Cernobbio al Forum Ambrosetti è stata presentata un’interessante ricerca che non a caso ha evidenziato i numeri del ritardo digitale di cui soffre l’Italia ma soprattutto ha dato gli stimoli per il rafforzamento dell’istruzione tecnico-scientifica.
Serve un New Deal delle competenze, se volessimo parafrasare il titolo dello studio.
Competenze sì, ma da sole non bastano, come dicevo prima.
Dalle Università italiane escono giovani brillanti che trovano collocazione all’estero perché evidentemente formati bene.
Dobbiamo creare le condizioni affinché i nuovi talenti restino qui, in un eco-sistema italiano dell’innovazione che sia attraente per loro e competitivo in una vetrina internazionale.
L’Italia è il 12esimo paese in Europa per investimenti sulle start up (analisi Dealroom).
Tra il 2016 e il 2021 in Italia sulle start up sono stati investiti 3,6 miliardi di euro contro il 76,4 di Regno Unito, 32 miliardi della Germania e 25 miliardi della Francia.
Bastano questi numeri a farci capire che le start up tecnologiche – che pure sono cresciute in questi 10 anni come vedremo tra poco nella ricerca di InfoCamere – purtroppo non sono ancora centrali nell’economia del Paese.
Eppure, innovare è un fattore chiave.
Esiste un valore di sistema nel favorire aziende che si prendono il rischio di innovare.
Sorge dunque la spontanea una domanda che dobbiamo porci tutti e che vorrei porre ai relatori oggi qui presenti: come possiamo evolvere verso un modello più premiante per i nostri giovani ad alto potenziale, che escono da un percorso formativo di alto livello, su cui il Paese ha investito molto, evitando il fenomeno della fuga all’estero a beneficio di altri Paesi?
Serve identificare delle modalità di maggiore stimolo rendendo più agevole il lavoro dei venture capitalist e dei business angels.
In altre parole, bisogna dedicare risorse pubbliche per raddoppiare gli investimenti sulle start up in Italia facendo sì che lo Stato si prenda una quota maggiore del rischio che l’innovazione per definizione comporta.
Come? Con forme di sgravi fiscali in primis, ma anche con una Pubblica Amministrazione che si sempre più agile e 4.0, grazie anche ad esempio alle risorse del Recovery fund.
Più complessivamente occorre che il nostro Paese compia uno scatto in avanti, promuovendo gli incentivi all’investimento sulle startup con due importanti garanzie: da una parte il fatto che possano esserci forme di detassazione per chi assume giovani laureati in ICT (con garanzie quindi sui livelli di retribuzioni per esperti e tecnici); dall’altra parte sostegno all’internazionalizzazione delle piccole medie imprese digitali.
Dobbiamo promuovere un’imprenditoria di successo.
Per farlo serve un terreno fertile che è si coltiva alimentando l’innovazione e la cultura di impresa.
In Italia troppo spesso accade che se un imprenditore ha successo, è considerato un “furbone”. Negli Stati Uniti, chi ha successo nel mondo imprenditoriale viene considerato come un modello o un esempio per gli altri.
Questo pregiudizio culturale deve farci riflettere.
La cultura di impresa come elemento virtuoso insieme al concetto dell’innovazione vanno alimentati fin dalla scuola (dagli studi superiori) e dalle Università.
Perché è grazie alla cultura di impresa e a chi innova si creano sviluppo, lavoro, crescita.
Antonio
SERVIZIO TGPADOVA TELENUOVO
INTERVISTA
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