In un sistema sanitario che deve fare sempre più i conti con la razionalizzazione della spesa, la prevenzione assume un ruolo fondamentale.
Il problema dell’Italia, come ci dicono i dati, è che sulla prevenzione si investe ancora troppo poco (solo il 4,2% della spesa sanitaria) ed è a macchia di leopardo: ci sono regioni come il Veneto che hanno fatto della prevenzione un cardine del loro Piano sociosanitario e altre regioni dove si fa poco troppo poco o addirittura nulla.
Questo è quanto ho ribadito stamane intervenendo alla tavola rotonda “La prevenzione tra obbligo ed educazione del cittadino, tra regionalismo e centralismo”, nell’ambito della Summer School di Motore Sanità, in corso ad Asiago (Vi).
Secondo l’ultimo rapporto Osservasalute, l’Italia è il fanalino di coda tra i Paesi OCSE per le risorse destinate alla prevenzione delle malattie.
La prevenzione, oggi, si gioca su due livelli: quello nazionale che prevede piani che coinvolgono tutto il Paese (basti pensare ai vaccini di cui si è parlato nelle ultime settimane) e quello regionale.
Quando parliamo di prevenzione la differenza la fanno le Regioni con le iniziative assunte per prevenire le patologie emergenti. Sotto questo aspetto, siamo di fronte a un’Italia a due velocità.
Riuscire a evitare patologie invalidanti e costose (pensiamo alle malattie cardiovascolari, al diabete e ai tumori) consente un risparmio in termini di spesa ospedaliera, spesa farmacologica e ha anche un impatto sull’economia in termini di giornate di lavoro perse.
Secondo il rapporto sulla sostenibilità del Servizio sanitario nazionale, nella sanità italiana, oggi si potrebbero risparmiare 22,5 miliardi tra sprechi, burocrazia, prestazioni inutili e mancata prevenzione.
La mancata prevenzione ci costa quasi 3,4 miliardi, secondo questo Rapporto. Gli sforzi sono ancora insufficienti, bisogna fare di più considerando che oggi 4 malati italiani su 10 sono cronici e assorbono una buona parte delle risorse del Servizio sanitario nazionale.
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